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Einsatzgruppe in Zdołbunów, Poland (today Zdolbuniv, Ukraine) shooting naked women and children from the Mizocz ghetto, Poland (today Mizoch, Ukraine).

[…] Himmler fece due visite ai comandanti degli Heinsatzgruppen [“Unità Operative” delle S.S. attive in Russia, N.d.r.] nel 1941, benché questi non dipendessero direttamente da lui ma da Heydrich nella sua qualità di capo della polizia di sicurezza.
Heydrich, tuttavia, fu assente dei suoi uffici durante le prime sei settimane della campagna di Russia, perché volava con la Luftwaffe, e dopo il 23 settembre rimase quasi sempre a Praga.
La prima visita di Himmler, in luglio o in agosto, fu dedicata a Nebe, che allora era a Minsk.
Qui il Reichsfürer delle SS volle assistere a un’esecuzione in massa.
Fu una cosetta da poco, ma che gli fece una tremenda impressione.
Perse quasi i sensi e si mise gridare istericamente, mostrando tutti segni di profondo turbamento.
Avrebbe persino voluto salvare un giovane ebreo perché avere capelli biondi e l’aspetto ariano.
Himmler diede allora a disposizione disposizioni a Nebe perché, avvalendosi della sua alta posizione nella polizia polizia tedesca, facesse studiare e introdurre dei metodi di sterminio più umani del plotone d’esecuzione.
I furgoni a gas che fecero la loro comparsa in Russia prima della fine di quell’anno e che furono i precursori del metodo normale di sterminio adottato negli anni 1942-44, furono la conseguenza di quell’incidente.
Dopo la guerra un cortometraggio, illustrante il funzionamento d’una camera a gas alimentata con i gas di scappamento di un autocarro, fu trovato nel vecchio appartamento di Nebe a Berlino.

Tre mesi dopo Himmler fece visita a Ohlendorf, allora a Nikolaiev, insieme con il capo della polizia di Quisling in Norvegia e mangiò alla mensa dell’Heinsatzgruppen.
Qui l’antica avversione di Himmler per Ohlendorf trovò nuovo alimento come venne a sapere che Ohlendorf aveva risparmiato le comunità ebraiche che lavoravano nelle fattorie collettive della zona di colonizzazione tra Krivoj e Kherson per non perdere il racconto.
E la cosa fu subito sistemata.

Himmler non era destinato ad assistere ad una vera esecuzione in massa, quale fu per esempio il massacro di 37.000 ebrei compiuto a Kiev in tre giorni soli, nel settembre 1941, a portata di voce e quasi in vista dei bei piazzali che guardano sul Dnieper.
Non mancano i racconti di testimoni oculari di episodi del genere, né le memorie di coloro che vi ebbero parte attiva; sono state anche conservate molte fotografie prese da soldati tedeschi, sebbene fosse severamente vietato.
Ma né da queste, né dai lugubri rapporti ufficiali dei comandanti degli Heinsatzgruppen, né dai loro interminabili evasivi discorsi sul banco degli imputati, si riesce a cogliere il vero orrore dantesco dei massacri.
Un resoconto merita, tuttavia, di essere citato per esteso, poiché proviene da un uomo non uso alle lettere, al quale però la commozione e l’orrore ispirarono parole e accenti che danno alla sua descrizione un valore letterario che essa conservò anche nella traduzione inglese presentata al processo di Norimberga [N.d.A. : Norimberga, documento PS 2992; IMT XIX, p. 457. Ho recato alcune modifiche alla traduzione inglese, che fu allegata agli atti del processo.]

L’autore è un certo Hermann Gräbe, un ingegnere del genio civile tedesco che lavorava per la Wehrmacht, un ingegnere del Genio Civile che lavorava in Ucraina, e l’episodio si svolse nella zona dell’aeroporto abbandonato di Dubno, il 25 ottobre 1942.

«Una vecchia dai capelli bianchi come la neve teneva in braccio un bimbo di un anno, e gli cantava qualcosa, facendogli solletico.
Il bimbo mandava gridolini di gioia.
I genitori li guardavano con le lacrime agli occhi.
Il padre teneva per mano un ragazzo di 10 anni e gli parlava dolcemente; il ragazzo tratteneva a stento le lacrime.
Il padre levò un dito al cielo e, accarezzandogli la testa, parve spiegargli qualcosa.
In quel momento il milite delle SS che stava presso la fossa dopo qualche parola al suo compagno.
Questi contò una ventina di persone le fece passare dietro il cumulo di terra.
La famiglia che ho descritto era nel gruppo.
Ricordo bene la ragazza, bruna e sottile, che passandomi accanto si indicò il petto e disse: “Ho ventitré anni.”

«Feci il giro del mucchio di terra e mi trovai davanti a una fossa orrenda.
I corpi erano pigiati e ammucchiati l’uno sull’altro, così che solo le teste erano visibili.
Quasi tutti erano feriti al capo il sangue colava sulle spalle.
Alcuni si muovevano ancora.
Altri alzavano le braccia e giravano il capo per far vedere che erano ancora vivi. La fossa era già piena per due terzi; calcolai che contenesse un migliaio di persone. Cercai con gli occhi l’uomo che eseguiva le fucilazioni.
Era uno delle SS; stava seduto con le gambe penzoloni sul bordo del lato più breve della fossa, con un mitra appoggiato sulle ginocchia, e fumava una sigaretta.
Le vittime, completamente nude, discesero alcuni gradini, scavati nella parete argillosa della fossa e scavalcando le teste dei caduti si diressero al punto indicato loro dalle SS.
Si distesero di fronte ai morti e feriti; alcuni carezzavano quelli ancora vivi parlando loro sommessamente.
Poi sentii una serie di colpi.
Guardai nella fossa e vidi dei corpi che si contorcevano ancora e delle teste già immobili sui corpi degli altri caduti prima.
Il sangue scorreva dalle nuche.

«Mi stupii che nessuno mi ordinasse di andarmene, ma notai che due o tre portalettere in divisa si trovavano accanto a me.
Già si avvicinava il gruppo successivo.
Tutti scesero nella fossa, si allinearono accanto alle vittime precedenti e vennero fucilati.
Quando tornai indietro, vidi che era arrivato un altro carico di gente. Questa volta c’erano anche dei malati e altri che non si reggevano in piedi.
Alcune donne, già nude, stavano spogliando una vecchia d’una magrezza spaventosa, sorretta da altre due.
Si vedeva che era paralitica.
La gente nuda la portò dietro il terrapieno.
Lasciai quel luogo insieme con il mio caposquadra e ritornai in macchina a Dubno.

«Il mattino dopo, quando tornai sul posto, vidi una trentina di corpi nudi che giacevano a trenta o cinquanta metri dalla fossa.
Alcuni erano ancora vivi; guardavano fisso davanti a loro con occhi vitrei e non davano segno di sentire freddo del mattino né di vedere gli operai del cantiere che stavano lì intorno.
Una ragazza di forse vent’anni si rivolse a me, chiedendomi di portarle dei vestiti e di aiutarla a fuggire.
In quel momento udimmo il rumore di un’automobile che si avvicinava a gran velocità; era una squadra di SS.
Tornai verso il cantiere.
Dieci minuti dopo, dei colpi di fucile risuonarono presso la fossa.
Gli ebrei che erano ancora vivi avevano ricevuto l’ordine di buttare i cadaveri nella fossa, poi avevano dovuto coricarsi anch’essi per essere fucilati alla nuca.»

Nell’immagine: Einsatzgruppe in azione a Zdołbunów in Polonia (oggi Zdolbuniv in Ucraina) durante lo sterminio di uomini e bambini nudi del Ghetto ebraico di Mizocz in Polonia (oggi Mizoch in Ucraina) [da Wikipedia]


Tratto da:
Gerald Reitlinger, Storia delle SS, Vol. I, Longanesi & C., Milano, 1969, pagg. 198-200.


 

Tesserino di riconoscimento di Mario Castelvetro (1946)

Tesserino di riconoscimento (1946)

“Tutti i giovani del Littorio, fin dai primi anni d’età, sono addestrati militarmente. Col passaggio ai ranghi superiori, l’istruzione militare si specifica e si definisce tecnicamente. All’età delle armi, il giovane fascista, che per un lungo volgere di anni la G. I. L. ha educato, istruito e addestrato, entra nell’Esercito come un soldato già forgiato, preparato all’uso delle armi che gli saranno affidate e con lo spirito disciplinato ed entusiasta”: così scriveva Achille Starace nel suo libro “Gioventù Italiana del Littorio” (1939).

Mario, come ogni ragazzo della sua età della sua generazione, era tenuto a fare quelle che erano conosciute come le “premilitari”.

La sua classe, quella del 1921, era stata richiamata alla leva militare e, con la entrata in guerra dell’Italia il 10 giugno 1940, presto sarebbe stato richiamato alle armi: dovendolo fare, aveva deciso che l’avrebbe fatto a modo suo, cioè dall’alto di un aeroplano.

Nell’estate del 1940, ancora studente alle scuole magistrali, inizia a frequentare la scuola preaeronautica di volo presso la R.U.N.A. (Reale Scuola Nazionale Aeronautica) di Ravenna, conseguendo pochi mesi dopo il brevetto di pilota di aliante: il suo primo volo lo effettua il 12 giugno, due giorni dopo la dichiarazione di guerra dell’Italia.

Nel 1941 si diploma alle scuole magistrali, con molto impegno suo e dei genitori, presso l’istituto “G. Carducci” di Forlimpopoli, distante 15 chilometri di bicicletta da casa sua: era lo stesso istituto frequentato dallo studente Benito Mussolini.

Bei voti in storia e letteratura ma, se ben ricordo, era scarso in matematica… difatti ha sbagliato tutti i conti, diceva di lui Mario.

Quel titolo di studio gli permetteva di ambire al grado di ufficiale pilota.

Nell’attesa della chiamata, insegna come supplente a Pisignano (RA), finchè nel 1942 viene richiamato ad Orvieto per iniziare il corso di pilota militare, continuando nei mesi successivi presso l’aeroporto di Ampugnano (SI). Trascorre così alcuni mesi che le foto ricordo ci mostrano come piacevoli, se non addirittura allegri e spensierati.

Piloterà vari tipi di aeroplani, per lo più biplani maneggevolissimi ma tecnologicamente arretrati: Saiman 202, IMAM Ro 41, FIAT C.R. 30-32-42.
Ci addestravano al volo acrobatico, la tecnica di guerra degli aviatori italiani era quella, affermava, ma contro aerei più potenti, veloci e armati non bastava.

Dopo aver accumulato oltre 82 ore di volo consegue il 13 luglio 1943 il “brevetto di pilota militare su apparecchio CR 42” con il grado di Sottotenente, pronto per entrare in linea sul fronte.

Di quelli che erano partiti ne tornavano pochissimi…, raccontava.

Erano giorni caldi: dieci giorni dopo, il 24 luglio, il governo fascista sarebbe crollato e Mussolini arrestato.

Il brevetto di volo non fecero in tempo a consegnarglielo (gli verrà consegnato nel 1949) né entrò mai in linea di combattimento, perché l’8 settembre 1943 Badoglio proclamò l’”armistizio”, illudendo gli italiani che credettero di essere usciti finalmente dalla guerra.

Era all’aeroporto di Fano quel giorno: in un memoriale ricorda come non si sapesse cosa fare, gli ufficiali che si erano involati con gli aerei disponibili, un aereo tedesco che a volo radente spara una unica lunga raffica sul campo d’aviazione, una violenta lite tra due commilitoni divisi se rimanere coi tedeschi o combatterli.

Lui, non avendo opinioni in merito, decide di adeguarsi al clima ben descritto dal film “Tutti a casa”, avviandosi verso casa, a Castiglione di Ravenna, in abiti civili, scantonando i controlli tedeschi, con il rammarico di dovere abbandonare nelle mani di un sarto locale una bellissima pezza di stoffa con cui doveva farsi un completo…

Nei mesi successivi la situazione divenne progressivamente difficile: la Repubblica Sociale Italiana nei mesi successivi aveva emesso bandi di arruolamento sempre più ultimativi, così, rifiutando di tornare a combattere una guerra che solo i nazifascisti avevano voluto e volevano, decide di nascondersi. Per mesi utilizza un rifugio sotterraneo, una stanza scavata in mezzo ai campi coltivati, con una botola coperta dall’erba, assolutamente invisibile ma anche pericolosa perché con le piogge si riempiva di acqua. Era lì che la sorellina Anna, di 13 anni, gli portava tutti i giorni il cibo.

Con l’ultimo bando Graziani, alle soglie dell’estate del 1944, che stabiliva la fucilazione per i renitenti alla leva fascista, deve decidere da che parte stare. Quei mesi di forzato isolamento avevano generato nuove domande e nuove risposte. Alcuni giovani della sua età, suoi amici, avevano deciso di aderire alla nascente resistenza, che si faceva sentire nella sua zona con frequenti attentati ed attacchi ai nazifascisti. Il 1° maggio del 1944 entra “ufficialmente” a far parte del GAP (Gruppi di Azione Patriottica) di Castiglione di Ravenna. Il padre Giuseppe, repubblicano, non si oppone, il fratello Rino lo segue pochi mesi dopo.

Dagli scarni racconti, dai pochi appunti e dai “bollettini militari” della Brigata conservati a Ravenna è possibile ricostruire alcune azioni da lui compiute all’interno del suo GAP nel 1944: l’affissione di manifesti e bandiere partigiane il 1° maggio, la distruzione col plastico dell’ufficio della casa del fascio di Russi, di un camion del comando tedesco e dell’anagrafe di un Comune nel ravennate, il lancio di chiodi uncinati in strade trafficate, l’attacco sulla Statale Adriatica ad un autocarro tedesco in transito.

Che botta!, commentava.
Di quei momenti scriveva alla nipote Elena:

Tu forse mi vuoi chiedere: “Quanti nemici hai ucciso?”.
La guerra é il più grande e mostruoso crimine perche ti costringe in certi casi ad uccidere per non essere ucciso.
È più importante rispondere ad un’ altra domanda: “Quante persone hai salvato?
Eravamo nella pineta di Ravenna tra il Bevano ed il fosso Ghiaia…

e continuava narrando di quando in due diverse occasioni, sotto il fuoco tedesco, aveva salvato due compagni partigiani, uno ferito ad una gamba e l’altro con una gamba distrutta da una mina, salvandogli la vita.

Nel ravennate l’intera 28ª Brigata opererà in quell’estate oltre 400 azioni.

All’inizio della medesima estate, con la progressiva organizzazione del Comitato di Liberazione nazionale (CLN) e la creazione del CUMER (Comando Unico Militare Emilia-Romagna) la Brigata Garibaldi ravennate si strutturò, assumendo la denominazione di 28ª Brigata GAP “Mario Gordini”, suddivisa in vari distaccamenti, ognuno intitolato a martiri della Resistenza: Mario apparteneva al “Settimio Garavini”, in cui assunse il grado di vicecomandante di compagnia. Il suo comandante era Alberto Bardi, ex ufficiale, un artista, il cui nome di battaglia era “Falco”: per un curioso caso del destino era il medesimo nome in codice del Fiat C.R. 42… Anche Mario, in ossequio alle regole della clandestinità, aveva assunto un nuovo nome di battaglia: Loris.

A coordinare strategicamente quella inedita forma di “pianurizzazione” della lotta partigiana era Arrigo Boldrini “Bulow”, ex ufficiale anche lui, personaggio carismatico durante e dopo la Resistenza, il quale segnerà in modo indelebile la formazione umana e politica di Mario.

Con l’arrivo degli alleati nella sua terra, dopo la liberazione di Ravenna, il 4 dicembre 1944, Mario ha l’opportunità di rientrare nella aviazione cobelligerante italiana, cosa che un suo compagno partigiano – aviatore anch’esso – accetta di fare. Mario decide invece di continuare la sua battaglia assieme ai compagni della Brigata. Essa, invece di sciogliersi, avaeav preteso e ottenuto di poter continuare a combattere come brigata autonoma, alle dipendenze militari del comando alleato, accanto alle truppe del rinato Esercito Italiano.

Al comando era ancora Arrigo Boldrini, “Bulow”.

Durante l’inverno la linea del fronte si stabilizzò a cavallo del fiume Senio: continuarono ad esserci scontri ed incursioni, finché nell’aprile 1945 l’offensiva alleata riprese in forze.

Fu durante una perlustrazione, alla fine dell’inverno, che accadde l’episodio di Oscar Solfrini.

Erano in tre, lui, Ravaglia e Solfrini. Si fermano in prossimità di una casa colonica abbandonata al cui interno si intravvedevano borracce tedesche. Diffidenti della situazione, due proseguono oltre, Solfrini rimane. Dopo qualche minuto si sente un forte colpo. Il tempo di tornare e vedere che l’edificio era stato minato ed era esploso, scomparendo assieme a Solfrini, di cui rimanevano solo poche ciocche di capelli…

La guerra stava finendo in Italia, anche tanti tedeschi sono stanchi, se è vero che Mario può raccontare che io, ad esempio, catturai duecento tedeschi e li dovetti scortare fino al punto di raccolta, minacciando di sparare ad un ufficiale se qualcuno avesse rotto le righe della fila.

Un mese e mezzo dopo la fine della guerra, il 20 maggio, fu decisa la smobilitazione della 28ª Brigata, con una grande sfilata in piazza a Ravenna, con discorsi rivolti al recente passato e al prossimo futuro.

La guerra era finita veramente, incominciava la ricostruzione.

Ho preso la mia bella pistola tedesca e l’ho buttata nel Savio, diceva.

Nel clima da resa dei conti dell’immediato dopoguerra, riesce a trattenere l’ira della vittima di un noto fascista di Castiglione, che si limita ad infliggere il medesimo trattamento riservatogli oltre vent’anni prima: una bevuta di olio di ricino, dagli effetti devastanti per l’intestino.

Ma è anche testimone diretto di un caso drammatico. Baffè, un partigiano a cui era stata sterminata l’intera famiglia di contadini, informato della cattura di uno dei responsabili dell’eccidio, irrompe di forza nel carcere che lo custodiva, ed armi alla mano ne pretende la consegna, portandoselo via.

Nell’immediato dopoguerra, prima di intraprendere la sua professione di maestro elementare, viene nominato commissario per la gestione del problema delle case per i tanti senzatetto.

Avevo davanti all’ufficio due file distinte di persone: da una parte quelli che non avevano un alloggio e dall’altro i proprietari a cui avevo requisito l’abitazione, scriveva.

Fa anche parte come membro della giuria popolare della Corte d’Assise Straordinaria di Ravenna che giudicò i criminali fascisti, processi in alcuni casi terminati con la fucilazione dei condannati.

Gli viene riconosciuta una medaglia (una patacca, la chiamava lui), la “Croce al merito di guerra”, abbandonata nel cassetto della scrivania, sopra la quale campeggia una litografia che rappresenta un gruppo di partigiani ia bordo di una piccola barca verso l’isola degli Spinaroni, la nascosta base partigiana della “Gordini” nel delta del Po: la stessa stampa che ora si può vedere all’interno della capanna ricostruita nel medesimo luogo ove era.

La sua formazione politica era nata li, in quei luoghi, a rischio della vita, accanto agli amici morti uccisi da un governo fantoccio dei nazisti, in mezzo alla nuova democrazia che si praticava in quell’esercito di volontari in cui si discuteva con un commissario politico e si votava per nominare il comandante.

Una lezione politica di unità antifascista, di rigore morale, di rispetto per le istituzioni create dal popolo, di acuto senso della giustizia sociale, perché, diceva, abbiamo fatto la guerra perché volevamo la pace: una pace in cui si potessero manifestare le proprie idee liberamente secondo i principi della Costituzione per realizzarne gli obbiettivi, obbiettivi che Mario ha perseguito per tutta la vita.

 


L’articolo originale, scritto dal figlio Maurizio Castelvetro, è stato pubblicato sul mensile “La Piazza / della Provincia di Rimini” nel numero 10 del 2017.
Il testo qui pubblicato potrà subire variazioni rispetto all’originale, a seguito di precisazioni e correzioni emerse nel corso del tempo.
Ultimo aggiornamento: 16 ottobre 2017.

Muoiono anche loro come noi. Anche loro vengono sepolti nei cimiteri comuni, nelle fosse oppure negli ossari e nei loculi. Per alcuni si celebra un funerale secondo le regole occidentali, per altri invece i parenti preferiscono rispettare la tradizione che in Cina viene chiamata “festa bianca”. Le voci italiane e straniere che fanno degli immigrati cinesi degli immortali sono più che altro una leggenda metropolitana. Partita da Parigi negli anni 70, dove la presenza della comunità asiatica era ed è tuttora particolarmente significativa, la storia del popolo che non muore mai arriva fino all’Italia, passando per la Germania, i Paesi Bassi e San Francisco.

La considerazione da cui si parte è sempre la stessa: ma perché non si vede mai un funerale cinese? Che fine fanno i corpi dei defunti? E le supposizioni non fanno che alimentare il mistero. C’è chi pensa che i corpi dei morti vengano sciolti nell’acido, chi teme di averli già mangiati e digeriti in un involtino primavera e chi invece crede di aver scoperto nuove cosche mafiose, scambi di documenti e chissà quali altri giri di malavita. Ma le cose (per fortuna) sono molto più semplici. Nell’articolo di Hahn Hoang pubblicato sul sito http://www.goldsea.com, si legge che a divulgare questo falso mito negli anni 80 sarebbero stati proprio gli studiosi di lingue e civiltà orientali residenti a Parigi.

Marie Holzman, scrittrice e sinologa nel suo libr Asiaa Parigi (1985) si domanda ironicamente se i cinesi non abbiano raggiunto l’immortalità perché cresciuti a riso e ginseng, e sostiene (e qui senza scherzi) l’ipotesi del passaggio di documenti dei deceduti per l’ingresso illegale di altri connazionali. Le autorità parigine prendono sul serio la signora Holzman e aprono un’inchiesta. Il risultato dà torto alla studiosa: il tasso di mortalità cinese a Parigi risulta così basso perché il 71% della popolazione immigrata nella città è sotto i 35 anni e solo il 3% raggiunge i 65 anni. Le voci però non si fermano e arrivano in Italia.

A Torino nell’agosto del 2000 viene presentata un’interpellanza dal consigliere comunale Giuliana Gabri che invita il sindaco e l’assessore della città ad avviare un’indagine sulla mancanza di decessi di persone di nazionalità cinese. A Milano, sul quotidiano La Padania del 25 settembre 2002 c’è scritto che il capogruppo del consiglio comunale e segretario provinciale Matteo Salvini ha sollecitato Prefettura e Questura a tenere sotto controllo le nascite e i morti della comunità di Chinatown. A Roma, sul Messaggero, un articolo del 5 dicembre 2002, dice che secondo i dati dell’anagrafe comunale il numero di cinesi residenti nella capitale con più di cent’anni arriva addirittura a 603. Un vero miracolo della natura!

«Si deve sfatare questo mito dei cinesi che non muoiono mai – spiega Daniele Cologna, ricercatore dell’area immigrazione straniera presso il Centro Studi Ricerca Synergia di Milano -. È una questione che non ha fondamento. Non c’è nessuna ragione perché ci si ponga il problema solo per loro e non per gli altri immigrati. Si devono guardare i dati statistici sui residenti della città di Milano». Ed effettivamente, le tabelle dell’ufficio anagrafe milanese parlano chiaro. Secondo un esame dell’evoluzione demografica dal 1997 al 2001 dei residenti filippini, egiziani e cinesi a Milano, non c’è alcuna differenza di rilievo nella mortalità di questi tre gruppi (nazionali di immigrati). Il tasso medio di mortalità per mille abitanti tra cinesi e filippini è identico (0,6‰) e quello degli egiziani si discosta di poco (0,8‰).

«La ragione sta nel fatto che la maggior parte degli immigrati cinesi sono molto giovani – continua Cologna -. Il boom del fenomeno migratorio verso l’Italia è avvenuto negli anni 80 quindi è ragionevole pensare che non ci siano stati ancora così tanti decessi».
Delle tre popolazioni, egiziana, filippina e cinese, quest’ultima è nettamente la più giovane. I dati relativi a Milano al 31.12.2002 indicano che il 28% degli immigrati cinesi su un totale di 10.919 ha meno di 17 anni. Questo significa che più di un cinese su tre residente a Milano è minorenne. Ma la storia non finisce qui. Quanti sostengono di non aver mai visto una lapide di un cinese nella nostra città non hanno forse sfruttato a pieno le potenzialità della tecnologia. La ricerca per Milano è piuttosto semplice. Basta recarsi in un cimitero, digitare un cognome come Cheng o Chu sul computer d’accoglienza per trovarne parecchi. Tumulati e sepolti, nelle nostre stesse cellette.

Chen Chia Chun, Chen Chia Lin, due fratelli, di sesso maschile. Morti entrambi l’8 gennaio 1976. Fossa 565, Cimitero Maggiore. Chen Io Chu, data del decesso 11 settembre 1962, condivide la tomba insieme alla sua signora Giuseppina Milani, italiana. Cimitero Maggiore.
“Sei sempre nei nostri cuori. Moglie e figlie” è la scritta incisa sul marmo del loculo di Yan Sang Kam, morto l’11 settembre 2002. Cimitero di Lambrate. Il nome di Cheng Jie invece è ancora su un pezzo di carta, appiccicato malamente alla lastra di marmo nell’ossario n. 1066. È un ragazzo giovane, morto nel ‘99 a soli 26 anni. Cimitero di Lambrate. La signora Tsu Wan Shan è stata la più longeva di tutti. Ha superato i novant’anni. Se ne è andata qualche mese fa, il 1 settembre 2004. Il suo loculo è già perfettamente in ordine. Fiori, scritte e una fotografia che la ritrae bella e sorridente. Cimitero di Lambrate. Dong Wenhang e Chen Jinkuai invece sono un po’ fuori mano. Cimitero di Bruzzano, provincia di Milano. L’elenco non è finito: Chang Tong Ma, Chen Ju Ta, Chang Mei Cheng, Chen Cheng Sung, Jang Jyi Ming. E chissà quanti altri.

«È vero che alcuni tornano a morire in Cina, ma solo se sono gravemente malati», spiega il dottor Wen Wei Hau, laureato in medicina a Pechino. Ora vive a Milano da sette anni e ha aperto un’erboristeria (che corrisponde a una nostra farmacia) nel cuore di Chinatown, in via Aleardi. «La diagnosi di una malattia come il tumore nel nostro paese è immediata. Qui invece si deve aspettare mesi prima di poter avere un appuntamento dal medico – continua il dottore -. Questa è la ragione per cui la gente preferisce andare via dall’Italia per farsi curare». Wen Wei ha moglie e figli e se pensa alla sua morte, la vede qui, in questa città. «Perché non dovrei morire dove ho trascorso la maggior parte della mia vita insieme alla mia famiglia?».

Lui non vuole certo farsi bruciare come succede in Cina. In realtà, ammette Wen Wei, i cinesi non amano questo rituale e preferiscono un funerale ‘normale’ in abito scuro con tanto di prete, bara, cerimonia e cimitero. Proprio come noi. E che riposino in pace.

(Giulia Guerri)

Questo articolo intitolato Noi cinesi, comuni mortali – Cologna: «Un mito da sfatare» è stato pubblicato l’ 11 marzo 2005 nella rubrica “Leggende metropolitane” del sito web MAG – Quotidiano online della Scuola di giornalismo della Università Cattolica di Milano.
Il sito MAG è scomparso, ma la traccia di questo articolo è rimasta in rete, seppur in maniera incompleta.
Visto il suo oggettivo interesse documentario, sociale nonchè politico, e la difficoltà di reperirlo on line nella sua compiutezza, ho ritenuto opportuno ospitarlo qui, in modo da renderlo indicizzabile sui motori di ricerca, a perenne scorno di tutti gli xenofobi nostrani.
Questo era il link alla pagina originale ora non più esistente ma recuperabile tramite un motore di ricerca che archivia le pagine scomparse: ecco la pagina recuperata.

Un intervento degno di attenzione, vincitore del “Duch Design Award” nel 2011, commissionato dal DLG, Ente governativo olandese che si occupa della gestione delle acque e del territorio.

«Questo progetto svela due segreti della New Dutch Waterline (NDW), una linea di difesa militare  in uso dal 1815 fino al 1940, studiata per proteggere le città olandesi di Muiden, Utrecht, Vreeswijk e Gorinchem per mezzo di un sistema di allagamento artificiale.

Un bunker apparentemente indistruttibile con un vincolo di tipo monumentale è stato letteralmente affettato e aperto.

Il progetto svela così il minuscolo interno di uno dei NDW di uno dei 700 bunker esistenti, i cui interni di cui sono normalmente completamente tagliati fuori dalla vista.

In aggiunta, una lunga e leggera passerella in legno attraversa con disinvoltura la massiccia costruzione, conducendo i visitatori in una zona allagata e lungo i sentieri di riserva naturale.

Il molo e i pali che lo sostengono ricordano che l’acqua che li circonda non è causata per esempio dalla rimozione della sabbia ma è piuttosto una acqua bassa caratteristica delle inondazioni attivabili in caso di guerra.

Il bunker “affettato” costituisce un’attrazione accessibile al pubblico per i visitatori del NDW.

È inoltre visibile dall’autostrada che passa nelle vicinanze e può quindi essere osservato anche da decine di migliaia di viaggiatori ogni giorno.

Il progetto fa parte della strategia globale del Rietveld Landscape | Atelier de Lyon per rendere accessibile e tangibile per una vasto pubblico questa parte così esclusiva della storia dell’Olanda.»

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La “croce celtica”
simbolo del neonazifascismo

Alla fine della seconda guerra mondiale i territori di Germania e Giappone furono pesantemente coinvolti dalla riscossa alleata, con bombardamenti e devastazioni drammatiche (basti citare episodi anche controversi come Dresda e Hiroshima) che indicarono pesantemente quali conseguenze nefaste avessero avuto le politiche imperialiste di aggressione e di sterminio perseguite dai nazifascisti: il popolo tedesco e giapponese, prima volonteroso carnefice poi vittima suo malgrado, dal dopoguerra non ha mai recriminato su questi episodi, al massimo trattandoli con vergogna e dolore, o cercando di ignorarli per il loro pesante carico di responsabilità pubbliche e private.

L’Italia invece, con la sua monarchia imbelle, con la resa dell’8 settembre 1943 ha tentato di salvare sè stessa e di evitare le distruzioni che la guerra voluta dai nazifascisti stava portando, una guerra che – senza quella resa e senza il contributo politico, morale e militare della Resistenza italiana – avrebbe portato l’Italia alla catastrofe, con distruzioni immani del patrimonio culturale, un ulteriore pesante carico di morte, disastrosi danni di guerra da pagare alle nazioni vincitrici, così come è avvenuto per Germania e Giappone.

Ma ciò in Italia non vi è stato, e non non certo grazie alla “difesa della Patria” operata da parte della Repubblica Sociale, che pur  di “onorare” l’alleanza coi nazisti non avrebbe esitato a permettere di fatto la distruzione dell’Italia stessa.

E qui sta il punto: non avendo subìto sino in fondo le CONSEGUENZE delle sue disastrose scelte – appunto come in Germania e Giappone – l’Italia fascista e militarista uscita dalla guerra non si è mai assunta la RESPONSABILITA’ del proprio fallimento morale e politico, continuando a ritenere il fascismo non il male assoluto ma una semplice opzione politica accidentalmente uscita sconfitta dalla guerra, anzi, continuando addirittura a ritenere di avere voluto difendere non il fascismo ma la Patria, e quindi ritenendo di avere svolto – PARADOSSALMENTE – lo stesso compito della Resistenza… ma dalla parte opposta.

Dopo essersi comportati come i più spietati carnefici, sin dal primissimo dopoguerra i fascisti iniziarono ad atteggiarsi a vittime, trovando complicità in un apparato Statale rimasto in gran parte indenne da epurazioni: la Storia della nostra giovane Repubblica è costellata di tentativi di golpe, pseudolegali e illegali, sul cui sfondo è sempre presente una mano fascista e antidemocratica: per fortuna, ma con fatica, sventati sempre grazie alla presenza di una robusta tradizione politica e democratica che, non dimentichiamolo, faceva perno sui valori della Resistenza e sulle norme della Costituzione repubblicana che da essa era nata.

Ancora oggi dunque dobbiamo sopportare i rigurgiti neofascisti, i quali nelle loro motivazioni recuperano lo spirito pseudorivoluzionario del primissimo fascismo (quello squadrista che incendiava le case del popolo, tanto per intenderci), puntando sulla purezza della “Nazione” che va difesa dalla contaminazione straniera, facendosi forte della contestazione di episodi spiccioli seppur drammatici legati alla Resistenza, facendo della complesso episodio delle Foibe istriane una bandiera per rivendicare una (impossibile) equivalenza con l’Olocausto e l’infinita sequenza di infamie nazifasciste.

Purtroppo tali rigurgiti nazifascisti, ancora poco visibili esteriormente ma serpeggianti in maniera sempre meno sotterranea, rischiano di trovare un brodo di cultura nella crisi economica e morale di questo inizio millennio.

La vigilanza e soprattutto la presenza attiva nel tessuto sociale di tutte le forze antifasciste è l’antidoto per queste dinamiche sociali così pericolose: i neofascismi devono capire di avere di fronte a sè due uniche opzioni politiche possibili: l’isolamento e la condanna. Ignorarli per evitare provocazioni o l’amplificazione delle loro idee, ma anche mobilitazione ogni volta che la soglia di pericolosità sociale è superata.

Nel dopoguerra per decenni furono attivi nelle città (ed in alcuni casi lo sono tuttora) dei Comitati unitari di vigilanza democratica antifascista, formati dalle rappresentanze di tutte le componenti democratiche e appunto antifasciste della società: Partiti, associazioni, circoli politici. Con ciò recuperando l’esperienza del 1943/1945 quando fu attivo il CNL (Comitato di Liberazione Nazionale) che nel nome di una comune battaglia di democrazia univa partiti di diversissimo stampo politico: comunisti, cattolici, repubblicani, liberali, monarchici ed anche anarchici.

L’unità delle forze democratiche è un caposaldo della nostra democrazia. Credo sarebbe opportuno la ricostituzione di tali Comitati, l’ANPI la sosterrebbe certamente, perché questa è la nostra storia, e questo dev’essere il nostro presente.

L’antifascismo non è un optional. La convivenza civile si basa sulle leggi, le leggi sulla Costituzione, la Costituzione solo su un fatto storico che la legittima e che regge dunque l’intero ordinamento. Per l’Italia democratica questo fatto si chiama Resistenza antifascista. Se viene meno il riconoscimento della Resistenza crolla l’intero castello di legittimità. Per questo il 25 aprile è festa nazionale: perché l’identità dell’Italia democratica, della nostra Patria, ha il suo ultimo fondamento nella vittoria della Resistenza antifascista, nella frase “Aldo dice 26×1”, con cui il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia dà l’ordine dell’insurrezione generale e i partigiani liberano le grandi città del nord da nazisti e fascisti prima dell’arrivo delle truppe alleate.

Patriottismo costituzionale a antifascismo fanno dunque tutt’uno. I funzionari pubblici che giurano sulla Costituzione compiono spergiuro ogni volta che non sono coerenti con i valori della Resistenza. E anche il semplice a-fascismo segnala drastica indigenza di patriottismo. Chi non è antifascista non è un autentico italiano. Chi poi è anti-antifascista è semplicemente un nemico della Patria.

Oggi purtroppo l’antifascismo è in minoranza, maggioritaria è la morta gora dell’indifferenza. I giovani nulla sanno dell’epopea della Resistenza a cui devono la libertà di cui godono. Colpa delle generazioni che avrebbero dovuto educarli, di un establishment che ha seppellito l’antifascismo nella retorica di celebrazioni bolse ed ipocrite, o peggio.

I governi democristiani, da perfetti sepolcri imbiancati, commemoravano il 25 aprile mentre trescavano con ogni risma di neofascisti e rottami repubblichini. Il regime berlusconiano ha voluto azzerare ogni memoria antifascista, portando “risma e rottami” al governo, in un progetto coerente di sovversione della Costituzione. La nostra convivenza civile poggia oggi sul vuoto. 

Ricostruire quel supremo “bene comune” che è l’identità della Patria repubblicana è perciò un compito morale, culturale e politico prioritario e di lunga lena. Che deve bandire la retorica, restituire ai giovani l’epos di rivolta che è stata la Resistenza e sopratutto la sua attualità in ogni lotta odierna per “giustizia e libertà”.

Paolo Flores d’Arcais  (da Il Fatto quotidiano, 25 aprile 2012)

Wikipedia è uno degli strumenti nuovissimi di conoscenza che la rivoluzione digitale di Internet ci ha messo a disposizione in questi anni: una enciclopedia effettivamente democratica, in cui ognuno può inserire voci e dati ma anche correggere quelli inseriti da altri, ed in cui, come in tutte le democrazie, vigono regole che hanno la funzione di garantire la qualità e la praticabilità del confronto, alla ricerca di quello che viene definito NPOV (Neutral Point Of View).
Questo strumento, pur con tutti i prevedibili limiti di attendibilità, nel tempo ha acquisito un buon equilibrio qualitativo e una notevole credibilità, diventando nel bene e nel male un ineludibile fonte di informazione: specialmente in ambito scolastico, Wikipedia è diventata LA enciclopedia.
Dunque, un potente ed influente mezzo di informazione.

Apprezzando questi aspetti, ho deciso da alcuni anni – per interesse e curiosità – di intervenire su Wikipedia, inserendo voci su eventi e personaggi della Resitenza (e non), intervenendo nei dibattiti e nelle Discussioni, correggendo capziose distorsioni dei fatti e della storia.
Ebbene, recentemente ho inserito una voce su un partigiano romagnolo, credo ignoto ai più, Arnaldo Evangelisti, medaglia d’argento al V.M.: tuttavia, qualche amministratore wikipediano ha ritenuto che la nuova voce non soddisfacesse i requisiti di “enciclopedicità” necessari per poter essere inclusi in Wikipedia, e così la voce è stata sottoposta a una valutazione/votazione da parte di alcuni volontari navigati utenti wikipediani finchè, dopo un acceso dibattito, la maggioranza ha deciso per la cancellazione della nuova voce.
Ebbene, non entro qui nel merito di tale scelta (per me ovviamente sbagliata), rispetto la decisione della maggioranza (che non ha sempre ragione), anche se critico fortemente l’idea di restringere i criteri di enciclopedicità  rispetto a personaggi come Evangelisti che nella loro breve esistenza hanno ottenuto importanti riconoscimenti (alla memoria), allargandoli viceversa verso personaggi dell’attualità televisiva e della cronaca spicciola, per cui ho ritenuto opportuno pubblicare qui, in uno spazio privato-ma-pubblico, la voce cancellata, così come essa era stata da me redatta, affidando ai motori di ricerca la sua rintracciabilità nella rete.

Questo è il mio personale riconoscimento e dovuto ringraziamento a Arnaldo Evangelisti, valoroso partigiano non enciclopedico.

Arnaldo Evangelisti (Cervia6 gennaio 1922 – Monte Falterona16 aprile 1944) è stato un partigiano.

Di professione meccanico, sposato, abitante a Cervia.
Il 12 settembre 1943 entrò a far parte della Resistenza, partecipando con Arrigo Boldrini e Giovanni Fusconi alla prima azione armata partigiana nell’area ravennate, la beffa del Savio, in cui un piccolo gruppo di partigiani travestiti da militari italiani riuscì a trafugare un ingente quantitativo di armi.
Il 28 febbraio 1944 raggiunse la Brigata Garibaldi Romagnola operante nell’Appennino forlivese, diventando vicecomandante e successivamente comandante della Compagnia armi pesanti.
Nell’aprile 1944, nel corso di quello che è noto come “grande rastrellamento d’aprile”, l’attacco da parte di truppe nazifasciste che portò al temporaneo disfacimento della formazione – in quel mese ridenominata “Gruppo Brigate Romagna” – durante il tentativo di sganciamento i partigiani corsero il rischio di essere accerchiati presso il Monte Falterona. Alla testa di un gruppo ben armato Evangelisti tentò allora di bloccare l’avanzata nemica presso il Passo La Calla, proteggendo il passaggio dei partigiani, resistendo fino all’ultimo prima di essere sopraffatto. Nello stesso giorno in quella zona cadde un altro suo concittadino, Virginio Zoffoli, commissario politico della stessa Compagnia.
Così viene raccontato l’episodio da Guido Nizzoli nel suo libro “Quelli di Bulow“:

« Per molte ore Evangelisti aveva personalmente manovrato una delle sue mitragliatrici con la speranza di aprire una breccia nel cerchio di fuoco che stringeva la brigata. Martellato a colpi di mortaio dagli attaccanti, a cui era riuscito ad infliggere gravissime perdite, vide cadere uno dopo l’altro tutti i serventi della sua postazione. Quando anche la sua mitragliatrice venne centrata dal tiro avversario, benché ferito, continuò a tenere testa alla marea degli attaccanti con precise raffiche di parabellum, per consentire ai compagni superstiti di sganciarsi, finché non fu dilaniato, sommerso da quell’onda rabbiosa che montava da ogni argine.»[1]

A seguito di questa azione è stato insignito della medaglia d’argento al valor militare.
A suo nome è stata intitolata una via nella sua città natale, Cervia.

Onorificenze

MEDAGLIA D’ARGENTO AL VALOR MILITARE
«
Comandante di una compagnia partigiana, guidando i suoi uomini in una travolgente azione, riusciva a rompere l’accerchiamento in cui numerose forze nazifasciste avevano stretta una intera brigata partigiana. Occupato di sbalzo alcune posizioni dominanti sosteneva con strenuo valore gli attacchi nemici e durante l’aspra lotta, caduti i serventi delle armi automatiche, li sostituiva coraggiosamente sparando fino all’ultima cartuccia. Colpito mortalmente cadeva da eroe sull’arma, immolando alla Patria la sua giovinezza.»
— M. Falterona, 16 aprile 1944 [2]

Note

[1] G. Nizzoli, Quelli di Bulow, Editori Riuniti, 1957, p.107.
[2] AA.VV., Cervia ore 6. Lotte popolari e antifasciste (1890-1945), Edizioni del Girasole, Ravenna, 1981.

Bibliografia

  • Guido NozzoliQuelli di Bulow. Cronache della 28ª Brigata Garibaldi, Editori Riuniti, 1957 (terza edizione: 2005).
  • Enciclopedia della Resistenza e dell’antifascismo, La Pietra, Milano, 1968, voce “Arnaldo Evangelisti”, p.248.
  • Luciano Casali, Zona 6. La Resistenza a Cervia e nelle Ville Unite, Comitato permanente antifascista, Cervia, 1971.
  • AA.VV., Cervia ore 6. Lotte popolari e antifasciste (1890-1945), Edizioni del Girasole, Ravenna, 1981.
  • Dino Mengozzi, L’8.a Brigata Garibaldi nella Resistenza, La Pietra, Milano, 1981.

Voci correlate

8ª Brigata Garibaldi Romagna

Collegamenti esterni

LA REPUBBLICA del 05 aprile 2011

 

(…) Quest’anno la ricorrenza annuale della Liberazione dall’invasione tedesca e dal regime fascista cade durante il 150° anniversario dell’Unità d’Italia.

Un anniversario fortemente sostenuto dal nostro Presidente Napolitano – un anniversario che, nell’Italia di oggi, non appare rituale, ma  piuttosto un rinnovato richiamo ai valori condivisi che ci rendono, appunto, fratelli d’Italia.

Siamo qui dunque a celebrare la memoria di fatti lontani, o addirittura lontanissimi per i giovani nati attorno al cambio di secolo, il XXI secolo.

Eppure, questa memoria appare ancora capace di suscitare emozioni, passioni, entusiasmi, indignazioni, polemiche.

Una memoria di drammatica attualità se ancora oggi sono notizie di attualità, in occasione di questa giornata – ma anche prima -, alcune azioni di propaganda a sostegno del fascismo mussoliniano, tentativi di revisionismo travestiti da neutralità, attacchi ai principi fondanti della nostra Costituzione, mentre si ascoltano voci scettiche se non ostili all’importanza di celebrare le ricorrenze che oggi celebriamo.

Esiste purtroppo una memoria breve, non consolidata, continuamente aperta ad una lettura revisionista, distorta e non condivisa della storia.

Noi crediamo invece di avere una memoria profonda, una memoria che parte da quei patrioti che, nel 19° secolo (il 1800), lottarono per creare una nuova nazione, unitaria, democratica, aperta al mondo: quella nazione che oggi chiamiamo Italia.

Una Italia unita con una azione audacissima, frutto della follia visionaria ma anche della forza ideale di poche centinaia di patrioti, i Mille, guidati da un personaggio già all’epoca leggendario, Garibaldi, ma dietro a cui c’erano le lezioni di democrazia di Mazzini, di Cattaneo, e l’acume politico di Cavour.

Un meridione conquistato trascinando intellettuali e popolo nell’entusiasmo di quello che appariva come un rinnovamento rivoluzionario, che tuttavia non avvenne.

Certo, il processo storico che noi oggi chiamiamo Risorgimento sotto la monarchia sabauda portò negli anni compresi tra il 1859 e il 1861 alla formazione dello Stato unitario italiano, processo completato in seguito con la liberazione del Veneto nel 1866 e dalla presa di Roma nel 1870, fino alla partecipazione alla terribile prima guerra mondiale, che possiamo considerare l’ultima delle campagne per l’indipendenza, dato che solo in seguito alla vittoria del 1918 Trento e Trieste, “terre irredente”, entrarono a far parte del Regno d’Italia.

Tuttavia nel primo Risorgimento non si realizzarono quegli ideali di democrazia e di sovranità popolare in cui credevano Garibaldi, Mazzini, Cattaneo e tanti altri patrioti.

Il Risorgimento non era stato realizzato in una sua parte fondamentale, quella della autodeterminazione del popolo teorizzata da quei Padri della patria: questa si ebbe dopo, abbattendo il regime fascista, con la lotta popolare di liberazione, voluta e guidata non più dalla monarchia sabauda ma da tutti i Partiti che, uniti insieme uniti nel nome dell’antifascismo e della democrazia, nel dopoguerra avrebbero conquistato la Costituzione repubblicana e rese possibili le prime vere libere elezioni a suffragio universale – incluse – per la prima volta – le donne.

Per questo motivo, per avere attuato il compimento delle premesse politiche nate nel primo Risorgimento, la Resistenza è stata definita il Secondo Risorgimento.

Una Resistenza – lo ricordiamo – attuata non solo attivamente in armi contro i nazifascisti ma anche passivamente da tutte quelle migliaia di nostri militari imprigionati che rifiutarono, in cambio della libertà, di aderire alla Repubblica di Salò.

Una Resistenza che aveva denominato le sue Brigate con i nomi di Garibaldi e di Mazzini.

E’ grazie alla Resistenza che ha potuto svilupparsi e prendere coscienza di sè l’idea di un nuovo Stato democratico e si è potuta scrivere la nostra  Costituzione.

Vale ancora una volta la pena di citare alcuni passi di Calamandrei:

“In questa nostra Costituzione c’è dentro tutta la nostra storia, tutto il nostro passato, tutti i nostri dolori, le nostre sciagure, le nostre gioie. Sono tutti sfociati qui in questi articoli; e, a sapere intendere, dietro questi articoli ci si sentono delle voci lontane… Mazzini… Cavour…. Cattaneo… Garibaldi… Beccaria! Grandi voci lontane, grandi nomi lontani… Ma ci sono anche umili nomi, voci recenti! Quanto sangue, quanto dolore per arrivare a questa costituzione!”

Queste le parole di Calamandrei.

Ecco allora perché quando un rispettabile ma prima d’ora ignoto onorevole osa presentare in Parlamento – da solo o con pochi complici – un emendamento per modificare il Primo articolo della Costituzione, si sta assistendo ad un gesto ignobile.

Intaccare lo spirito della Costituzione, addirittura il primo articolo, pensandolo e modificandolo come se si trattasse di un manuale tecnico, a colpi di maggioranza come se si trattasse di un regolamento condominiale, è un atto oltraggioso che nulla ha a che fare con la democrazia.

Allo stesso modo pensare di eliminare l’articolo transitorio della Costituzione italiana che vieta la ricostruzione del partito fascista non è nell’Italia di oggi un atto di liberalità democratica ma piuttosto un vero e proprio tentativo di revisionismo storico, da giudicare pericoloso in quanto non atto finale di chiusura di un doloroso capitolo della storia nazionale ma orgoglioso atto di sfida alla riapertura di quel medesimo capitolo, con le medesime parole di allora.

Ma – anche se simbolicamente importanti – i veri problemi non sono questi: i problemi sono quelli che ancor oggi la nostra carta costituzionale ci addita come princìpi da realizzare, obbiettivi da raggiungere, conquiste da salvaguardare: diritto all’istruzione, diritto al lavoro, diritto alla casa, dovere di pagare tutti le tasse, dovere di rispettare le leggi, uguaglianza di tutti  cittadini (nessuno escluso) di fronte alla legge, dovere di punire i colpevoli e salvaguardare gli innocenti, assenza di discriminazioni di fede, di razza, di religione.

Principi da realizzare attraverso un raffinato e collaudato bilanciamento dei poteri legislativo, giudiziario ed esecutivo, voluto e concepito dai nostri Padri costituenti allo scopo di garantire la durata nel tempo di quella che possiamo definire una vera e propria macchina della democrazia.

Ricordandoci sempre che la responsabilità pubblica non è motivo di salvaguardia ma motivo di maggiore responsabilità e trasparenza.

E che l’istruzione, come affermava Carlo Cattaneo, “è la più valida difesa della libertà” perché il cittadino istruito – che oggi vuol dire informato – oltre che essere in grado di costruire il suo futuro diventerà egli stesso difensore della libertà.

Questa è per noi la Memoria.

E’ ricordarci chi siamo, da dove veniamo, cosa è costato in dolore e sangue avere le Leggi che il popolo italiano si è dato.

« La patria è la casa dell’uomo, non dello schiavo », affermava Giuseppe Mazzini.

Per questo diciamo e sempre continueremo a dire, come sempre abbiamo detto e fatto,
Viva la Resistenza! Viva l’Italia!

Ieri ai funerali di Vilmo Piccioni, partigiano della 29ª Brigata Garibaldi, il tempo era grigio, pioveva.
Le bandiere erano appena mosse dal vento freddo.
Solo quando, durante l’orazione funebre, Silvio ha ricordato i suoi anni nella Resistenza, proprio quando ha detto “il 1943 e il 1944”, un unico improvviso refolo di vento ha sollevato la bandiera dell’ANPI.
Improvvisamente ha sventolato con forza, e per una attimo ha sfiorato la bara.

Voi immaginate un ragazzo di quell’epoca là, di 26-25 anni, che magari di notte sta lì sul campo e ha imparato quest’inno – perché trascinava, eh! trascinava, come tutte le cose dell’arte, della poesia, trascinano dove nessun’altra cosa trascina – e se lo canta da solo, se lo canta da solo pensando che non è che – diciamo così – che protegge la terra dei suoi padri, ma tutela la terra dei suoi figli.

Per noi l’ha fatto, e quasi sorridendo, sapendo che il giorno dopo può essere l’ultimo, che può veramente morire, quando dice “siam pronti alla morte” non lo dicono per dire, erano pronti veramente, ma hanno dato la morte perché noi vivessimo, senza queste… senza la morte, ecco.

Allora io vorrei fare immaginare un ragazzo che se lo canta, me lo sono immaginato per me, a volte l’ho pensato, o che uno a casa,  tornando a casa, eh! lo vorrei eseguire, io non sono un cantante, mi gioco tutto…

Di notte… uno che si è trovato da solo, un ragazzo giovane, proprio intriso di gioventù, immaginate proprio la gioventù di un ragazzo, eh! che ha appena imparato questa canzone, da solo, senza nessuno strumento, se la ripassa da sè, pensando al futuro, al futuro che siamo noi, e questa canzone lui l’avrebbe fatta così…

Un recente libro-inchiesta pubblicato del giornalista dell’Espresso Gianluca Di Feo intitolato “Veleni di Stato” (Rizzoli 2009), sulla base di documenti tedeschi, inglesi, americani ha sollevato il tema della presenza invisibile ma reale sul territorio Italiano della preoccupante eredità dell’enorme arsenale chimico bellico creato dal regime fascista ed occultato dai tedeschi e di quello disperso dalle forze alleate durante l’ultima guerra.
La zona adriatica a cavallo della Linea Gotica è indicata come uno dei luoghi significativi in cui ciò è avvenuto, insieme alle coste pugliesi, al golfo di Napoli, al Lago Maggiore, alla Lombardia, al Lazio.
Nel capitolo “L’iprite davanti agli ombrelloni” Di Feo documenta l’esistenza ad Urbino di un importante deposito tedesco di ordigni chimici catturati agli italiani a seguito dell’armistizio, di cui il 19 dicembre 1943, su ordine diretto di Hitler, fu deciso il trasferimento, probabilmente in Germania.
Nell’estate del 1944, il 21 giugno, lo stesso Hitler impose tassativamente lo sgombero immediato del magazzino, che iniziò il 6 luglio. La complessa e pericolosa procedura prevedeva il trasporto degli ordigni chimici sino a Pesaro e Fano e di lì verso il nord: ma, con gli alleati alle porte – l’attacco alla Linea Gotica avverrà all’inizio di settembre – i continui incidenti già avvenuti durante gli spostamenti e le incursioni aeree avrebbero potuto avere conseguenze catastrofiche bloccando l’importantissimo asse ferroviario adriatico, per cui il Maggiore Meyer, comandante del Sonderkommando incaricato dell’operazione, scelse il male minore: gettare l’arsenale chimico nell’Adriatico.
Tre vagoni di testate chimiche, corrispondenti a 84 mila litri di arsenico, arrivarono a Pesaro e vennero svuotati di notte in mare. Stessa sorte seguirono 4.300 grandi bombe C500T contenenti iprite, il famoso gas tossico e vescicante, per un totale di 1.316 tonnellate, oltre un milione di litri, che entro il 10 agosto 1944 vennero caricate su barconi, e gettate al largo.
Pochi anni dopo la fine della guerra, in una interrogazione parlamentare del 20 novembre 1951 il Sottosegretario alla Marina mercantile Ferdinando Tambroni, rispondendo ad una interrogazione parlamentare dell’On. Enzo Capalozza (sindaco di Fano nel 1944, deputato poi senatore del PCI nel dopoguerra, giudice della Corte costituzionale) avente ad oggetto “Rastrellamento di bombe all’iprite nel tratto dell’Adriatico tra Ancona e Pesaro”, rispondeva in maniera dettagliata, riconoscendo l’esistenza di un pericolo ancora presente, citando “l’infortunio dei pescatori locali per contaminazione da aggressivo chimico”, riportando le coordinate geografiche della “zona in cui le bombe ad iprite sarebbero state affondate”: quattro punti geografici ubicati in mare, di fronte al porto di Cattolica, a Casteldimezzo ed a Fosso Sejore (tra Pesaro e Fano), a distanze variabili tra uno e tre miglia dalla riva, e due punti sulla terraferma – probabilmente un errore di trascrizione – nei Comuni di Cattolica e San Giovanni in Marignano.
L’inchiesta ufficiale del 1951 lasciava aperti molti interrogativi – non risultano infatti attuate successive campagne militari di indagini – ancora oggi privi di risposte esaurienti: molti ordigni sono stati rinvenuti nel dopoguerra, ma non sappiamo precisamente dove e quanti siano oggi gli involucri d’acciaio sepolti da fango e sabbia sui fondali, se possono essere recuperabili, se con il tempo potranno corrodersi rilasciando sostanze tossiche, ne’ sappiamo – ove ciò avvenisse – quali conseguenze potrebbero avere per l’ambiente, per la salute dei cittadini, per l’economia turistica.
Recentemente, nelle Marche, la lista civica LiberiXPesaro unitamente a Italia Dei Valori hanno sollecitato il Comune e la Provincia di Pesaro a richiedere chiarimenti in merito al Governo italiano. Tale richiesta è stata accolta e lo scorso 21 giugno è giunta la risposta del Ministero della Difesa, che affermava l’avvenuto recupero delle bombe e la bonifica delle aree marine colpite negli anni del dopoguerra, il non ritrovamento in epoca recente di ordigni bellici con caricamento all’iprite e la conseguente “dubbia utilità” di ulteriori monitoraggi dei fondali.
Per informare l’opinione pubblica nel mese di ottobre si è tenuta presso la Sala della provincia di Pesaro una pubblica conferenza con la partecipazione di Di Feo, di rappresentanze dell’Amministrazione comunale e provinciale, del Laboratorio Politico di Molfetta, dell’ARPA e di ricercatori dell’ambiente.
Tra Cattolica e Gabicce, invece, tutto ciò è passato quasi in silenzio, producendo solo l’intervento di qualche struzzo ansioso di querelare Di Feo per ‘allarmismo’ anche se non si sa bene su quale presupposto, ché non si può processare chi porta alla luce fatti e documenti del passato, specie se questi ci danno informazioni sul nostro presente e ci ammoniscono sulle possibili conseguenze per il futuro.
Per questo motivo l’ANPI di Cattolica ha intenzione di organizzare il prossimo anno un incontro pubblico sul tema con la partecipazione di Di Feo e dei marinai testimoni diretti di quegli eventi.

Maurizio Castelvetro (LA PIAZZA DELLA PROVINCIA, novembre 2010)

Fotografia aerea con indicazione dei sei punti in cui le bombe ad iprite sarebbero state affondate, secondo le coordinate fornite dall’Ufficio circondariale marittimo di Cattolica nel 1951.

Solo l’istruzione in ogni guisa sollecitata e promossa potrà addurre un rimedio alla paralisi delle intelligenze e della volontà, onde veggiamo colpite le nostre popolazioni, e che lascia aperta la via allo Stato d’impadronirsi delle forze del paese, di cui diviene solo e assoluto amministratore.

Quanta più luce si diffonde in un paese, tanto più lo Stato si ricongiunge alla nazione, da cui in tempi di barbarie e di servaggio staccossi violentemente, e cessa di soverchiare coll’inesorabile assolutismo della spada; laonde è manifesto che l’istruzione è la più valida difesa della libertà.

M. Boneschi (a cura di), Carlo Cattaneo. Scritti politici, III, Le Monnier, Firenze, 1964-65, p. 132.

TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d’impunità.

E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo.

Vittorio Alfieri, Della tirannide, 1790

Lentamente entriamo in un dramma,
inspiegabile ed inumano.
Nessuna retorica, solo ricerca della verità.
Onesto e per questo sconvolgente.
Emozionante. Denso. Imperdibile.

Il 21 ottobre 2009 si è spento Vittorio Vitali.
Nato nel 1926, di origine marchigiana, non ancora maggiorenne entrava a far parte della 5ª Brigata GAP Garibaldi “Pesaro, da oltre 20 anni ricopriva l’incarico di presidente dell’ANPI, prima nel Comitato comunale di Rimini e poi in quello provinciale..
Al suo funerale Daniele Susini, giovane segretario provinciale dell’ANPI, leggeva commosso questa dedica a nome di tutti “i tuoi ragazzi”.

Un discorso breve e semplice, come avrebbe voluto Vittorio, perché come ci ripeteva sempre “sennò la gente si annoia”.

Non è facile esprimere i nostri sentimenti ed essere qui oggi per questa triste occasione, ma vogliamo esserci ed è doveroso anche solo minimamente sdebitarci con chi ci ha dato tanto, perché Vittorio è colui che ha voluto che l’ANPI a Rimini avesse nuove gambe.
Io per primo e tutti i giovani antifascisti presenti a questo funerale dobbiamo la nostra presenza all’interno dell’ANPI a Vittorio Vitali, è stato lui prima di tanti altri anche a livello nazionale a comprendere che l’ANPI non poteva finire con la morte dei Partigiani per questo si è prodigato ad aprirci la strada all’interno dell’associazione, ci ha dato la guida, ci ha dato il sostegno e l’entusiasmo per impegnarci nell’ANPI.

Per noi antifascisti quando muore un nostro partigiano e come se morisse un padre o un nonno perché queste persone hanno in loro dei valori ed un altezza morale che ci ha fanno sentire accolti come in una grande famiglia.
Le persone come Vittorio provengono da un altro tempo, un tempo diverso da quello di oggi, fatto di lotte e di valori, tante volte me lo ricordava che lui aveva attraversato tutto il secolo scorso, lo diceva con orgoglio davanti ai ragazzi delle scuole, impegno che considerava centrale non solo per l’ANPI ma soprattutto per sè stesso.

Per questo vogliamo raccogliere fin da subito l’eredità del nostro caro Vittorio, questo è quello che avrebbe voluto, che non ci perdessimo d’animo e continuassimo a combattere la sua lotta, ovvero far prevalere quei principi che l’hanno formato durante la guerra di Liberazione e che fino ad oggi l’hanno spronato ad andare avanti.

Esprimiamo tutta la nostro dolore alla famiglia a cui ci sentiamo molto vicini, li ringraziamo per la disponibilità che hanno avuto nei confronti dell’ANPI e gli diciamo che per noi Vittorio nel suo esempio sarà sempre vivo.

COSTITUZIONE ITALIANA

DISPOSIZIONI TRANSITORIE E FINALI
27 dicembre 1947

XII. E` vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista. In deroga all’articolo 48, sono stabilite con legge, per non oltre un quinquennio dall’entrata in vigore della Costituzione, limitazioni temporanee al diritto di voto e alla eleggibilità per i capi responsabili del regime fascista.

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Legge  n. 645 del 20/6/1952 (“Legge Scelba”)
NORME DI ATTUAZIONE DELLA XII DISPOSIZIONE TRANSITORIA E FINALE (COMMA PRIMO ) DELLA COSTITUZIONE

1. Riorganizzazione del disciolto partito fascista Ai fini della XII disposizione transitoria e finale (comma primo) della Costituzione, si ha riorganizzazione del disciolto partito fascista quando una associazione, un movimento o comunque un gruppo di persone non inferiore a cinque persegue finalità antidemocratiche proprie del partito fascista, esaltando, minacciando o usando la violenza quale metodo di lotta politica o propugnando la soppressione delle libertà garantite dalla Costituzione o denigrando la democrazia, le sue istituzioni e i valori della Resistenza, o svolgendo propaganda razzista, ovvero rivolge la sua attività alla esaltazione di esponenti, principi, fatti e metodi propri del predetto partito o compie manifestazioni esteriori di carattere fascista.

2. Sanzioni penali Chiunque promuove, organizza o dirige le associazioni, i movimenti o i gruppi indicati nell’articolo 1, è punito con la reclusione da cinque a dodici anni e con la multa da 2.000.000 a 20.000.000 di lire (3/a) (4). Chiunque partecipa a tali associazioni, movimenti o gruppi è punito con la reclusione da due a cinque anni e con la multa da 1.000.000 a 10.000.000 di lire (1) (2). Se l’associazione, il movimento o il gruppo assume in tutto o in parte il carattere di organizzazione armata o paramilitare, ovvero fa uso della violenza, le pene indicate nei commi precedenti sono raddoppiate (2). L’organizzazione si considera armata se i promotori e i partecipanti hanno comunque la disponibilità di armi o esplosivi ovunque custoditi (2). Fermo il disposto dell’art.29, comma primo, del codice penale, la condanna dei promotori, degli organizzatori o dei dirigenti importa in ogni caso la privazione dei diritti e degli uffici indicati nell’art.28, comma secondo, numeri 1 e 2, del codice penale per un periodo di cinque anni. La condanna dei partecipanti importa per lo stesso periodo di cinque anni la privazione dei diritti previsti dall’art.28, comma secondo, n. 1, del codice penale. (1) La misura della multa è stata così elevata dall’art.113, quarto comma, L. 24 novembre 1981, n. 689, la sanzione è esclusa dalla depenalizzazione in virtù dell’art.32, secondo comma, della legge sopracitata. (2) Gli attuali commi dal primo al quarto così sostituiscono gli originari primi tre commi per effetto dell’art.8, L. 22 maggio 1975, n. 152.

3. Scioglimento e confisca dei beni Qualora con sentenza risulti accertata la riorganizzazione del disciolto partito fascista, il Ministro per l’interno, sentito il Consiglio dei Ministri, ordina lo scioglimento e la confisca dei beni dell’associazione, del movimento o del gruppo (3). Nei casi straordinari di necessità e di urgenza, il Governo, sempre che ricorra taluna delle ipotesi previste nell’art.1, adotta il provvedimento di scioglimento e di confisca dei beni mediante decreto-legge ai sensi del secondo comma dell’art.77 della Costituzione. (3) Comma così sostituito dall’art.9, L. 22 maggio 1975, n. 152.

4. Apologia del fascismo Chiunque fa propaganda per la costituzione di una associazione, di un movimento o di un gruppo avente le caratteristiche e perseguente le finalità indicate nell’articolo 1 è punto con la reclusione da sei mesi a due anni e con la multa da lire 400.000 a lire 1.000.000 (1). Alla stessa pena di cui al primo comma soggiace chi pubblicamente esalta esponenti, princìpi, fatti o metodi del fascismo, oppure le sue finalità antidemocratiche. Se il fatto riguarda idee o metodi razzisti, la pena è della reclusione da uno a tre anni e della multa da uno a due milioni (4). La pena è della reclusione da due a cinque anni e della multa da 1.000.000 a 4.000.000 di lire se alcuno dei fatti previsti nei commi precedenti è commesso con il mezzo della stampa (1). La condanna comporta la privazione dei diritti previsti nell’articolo 28, comma secondo, numeri 1 e 2, del c.p., per un periodo di cinque anni (5). (1) La misura della multa è stata così elevata dall’art.113, quarto comma, L. 24 novembre 1981, n. 689. La sanzione è esclusa dalla depenalizzazione in virtù dell’art.32, secondo comma, della legge sopracitata. (4) Comma così sostituito dall’art.4, D.L. 26 aprile 1993, n. 122. (5) Così sostituito dall’art.10, L. 22 maggio 1975, n. 152.

5. Manifestazioni fasciste Chiunque, partecipando a pubbliche riunioni, compie manifestazioni usuali del disciolto partito fascista ovvero di organizzazioni naziste è punito con la pena della reclusione sino a tre anni e con la multa da 400.000 a 1.000.000 di lire (1). Il giudice, nel pronunciare la condanna, può disporre la privazione dei diritti previsti nell’articolo 28, comma secondo, numeri 1 e 2, del codice penale per un periodo di cinque anni (6). (1) La misura della multa è stata così elevata dall’art.113, quarto comma, L. 24 novembre 1981, n. 689. La sanzione è esclusa dalla depenalizzazione in virtù dell’art.32, secondo comma, della legge sopracitata. (6) Così sostituito dall’art.11, L. 22 maggio 1975, n. 152. 5-bis. – Per i reati previsti dall’articolo 2 della presente legge è obbligatoria l’emissione del mandato di cattura (7). (7) Articolo aggiunto dall’art.12, L. 22 maggio 1975, n. 152.

6. Aggravamento di pene Le pene sono aumentate quando i colpevoli abbiano ricoperto una delle cariche indicate dall’art.1 della legge 23 dicembre 1947, n. 1453 (8), o risultino condannati per collaborazionismo ancorché amnistiati. Le pene sono altresì aumentate per coloro che abbiano comunque finanziato, per i fatti preveduti come reati negli articoli precedenti, l’associazione, il movimento, il gruppo o la stampa (9). (8) Recante norme sulla limitazione temporanea del diritto di voto ai capi responsabili del regime fascista. (9) Comma così sostituito dall’art.13, L. 22 maggio 1975, n. 152.

7. Competenza e procedimenti La cognizione dei delitti preveduti dalla presente legge appartiene al tribunale. Per i delitti stessi si procede sempre con istruzione sommaria, salvo che ricorrano le condizioni per procedere a giudizio direttissimo ai sensi dell’art.502 del codice di procedura penale. In questo caso il termine di cinque giorni indicato nello stesso articolo è elevato a quindici giorni.

8. Provvedimenti cautelari in materia di stampa Anche prima dell’inizio dell’azione penale, l’autorità giudiziaria può disporre il sequestro dei giornali, delle pubblicazioni o degli stampati nella ipotesi del delitto preveduto dall’art.4 della presente legge. Nel caso previsto dal precedente comma, quando vi sia assoluta urgenza e non sia possibile il tempestivo intervento dell’autorità giudiziaria, il sequestro dei giornali e delle altre pubblicazioni periodiche può essere eseguito dagli ufficiali di polizia giudiziaria, che debbono immediatamente, e non mai oltre ventiquattro ore, farne denuncia all’autorità giudiziaria. Se questa non lo convalida nelle ventiquattro ore successive, il sequestro si intende revocato e privo di ogni effetto. Nella sentenza di condanna il giudice dispone la cessazione dell’efficacia della registrazione, stabilita dall’art.5, L. 8 febbraio 1948, n. 47, per un periodo da tre mesi a un anno e, in caso di recidiva, da sei mesi a tre anni.

9. Pubblicazioni sull’attività antidemocratica del fascismo La Presidenza del Consiglio bandisce concorsi per la compilazione di cronache dell’azione fascista, sui temi e secondo le norme stabilite da una Commissione di dieci membri, nominati dai Presidenti delle due Camere, presieduta dal Ministro per la pubblica istruzione, allo scopo di far conoscere in forma obiettiva ai cittadini e particolarmente ai giovani delle scuole, per i quali dovranno compilarsi apposite pubblicazioni da adottare per l’insegnamento, l’attività antidemocratica del fascismo. La spesa per i premi dei concorsi, per la stampa e la diffusione è a carico dei capitoli degli stati di previsione della spesa per acquisto e stampa di pubblicazioni della Presidenza del Consiglio e del Ministero della Pubblica istruzione.

10. Norme di coordinamento e finali Le disposizioni della presente legge si applicano senza pregiudizio delle maggiori pene previste dal codice penale. Sono abrogate le disposizioni della L. 3 dicembre 1947, n. 1546, concernenti la repressione dell’attività fascista, in quanto incompatibili con la presente legge. La presente legge e le norme della L. 3 dicembre 1947, n. 1546, non abrogate, cesseranno di aver vigore appena che saranno state rivedute le disposizioni relative alla stessa materia del Codice penale.

Per ulteriori approfondimenti si veda qui.
Sia ben chiaro, comunque, che al di là di ogni giudizio “legale” vale la condanna politica e morale sul fascismo che la Storia ci ha dolorosamente consegnato, e insegnato, quale che sia la forma in cui esso si mostri: vestito con la camicia nera o di un altro colore, con il fez o con la cravatta, lupo che si spaccia per pecora, violento o imbonitore.

Oscar era un amico di Mario. Separati dal fiume Savio che segnava la linea di confine tra due paesi, uno abitava a Castiglione di Cervia e l’altro a Castiglione di Ravenna. Insieme erano entrati nella Resistenza, insieme erano nella Brigata “Mario Gordini”, insieme erano il giorno che Solfrini venne ucciso.
Mario non amava scrivere memoriali, non aveva nessun tipo di nostalgia, a voce talvolta descriveva episodi della lotta partigiana, ma scrivere no, bisognava proprio che ci fosse un buon motivo e allora scrivere diventava un impegno e quasi un dovere.
Una di quelle volte è questa che riporto, come fu che morì Oscar, 19 anni, un fatto che ogni tanto tornava fuori nei suoi discorsi, l’impressione doveva essere stata grande. Aveva scritto questi appunti in margine ad una pagina di un libro che accennava proprio a quell’episodio, “Cervia ore 6”, pubblicato nel 1981 dalle Edizioni del Girasole, opera scritta a più mani da un gruppo di lavoro con il patrocinio del Comune e del Comitato Unitario Antifascista di Cervia.
Un suo testo scritto vari decenni dopo i fatti, breve, asciutto, fulminante, crudamente descrittivo eppure proprio per ciò impressionante, di una inusuale qualità letteraria che a me ricorda il Vittorini di “Uomini e no”. Lo riporto tale e quale, spazi ed a capo inclusi.

Era verso la fine dell’inverno del 1945, da parecchie settimane il fronte era fermo sul Reno e sul Senio, con le forze alleate da una parte ed i nazifascisti dall’altra. Ii partigiani, che sopportavano male la guerra di posizione, si spingevano a piccoli gruppi lungo l’argine del fiume in azioni di guerriglia…

Partiamo dalla Baladora io Solfrini e Ravaglia per ispezionare il territorio – terra di nessuno e effettuare un recupero di armi presso il passo Primaro.

Arriviamo alla casa – non ci sono tedeschi. Sospingo la porta – vedo un tavolo pieno di borracce tedesche – attenzione – forse ritornano. Suggerisco di non entrare per cercare armi.

Solfrini si ferma. Proseguiamo. Lungo il canale siamo avvistati dai tedeschi che, da oltre il Reno, ci spediscono granate da mortaio.

Zompiamo affrattandoci a tratti – giungiamo al passo del fiume. Un massacro di animali ancora attaccati al carretto – tedeschi morti – muri sventrati. Anche la cantina da cui affiorano bottiglie di S. Giovese sotto la sabbia. Una buona bevuta ci voleva – recuperiamo armi. La machine pistol mi servirà fino alla fine. Ritorniamo. S’ode un boato – attenzione questo è un obice.

In lontananza non scorgiamo la casa.

Ci avviciniamo. Alcuni ruderi. I partigiani della Baladora si aggirano cercando – Solfrini è entrato – le gavette erano minate – non è rimasto nulla. Della casa qualche muro perimetrale. Una buca un telo da tenda mimetica piccoli brandelli – capelli di Solfrini.

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Vitali, Bentivegna e Raschi

Vitali, Bentivegna e Raschi

L’ANPI di Rimini in occasione della Festa del tesseramento ha organizzato un incontro intitolato “ANPI e/è giovani” con Rosario Bentivegna – noto ai più per essere stato il comandante del GAP che effettuò l’attacco di Via Rasella a Roma – presieduto dal presidente Vittorio Vitali.
Dopo l’intervento della “pasionaria” vicepresidente Elisabetta Raschi, Bentivegna ha raccontato al pubblico le motivazioni profonde che, dopo essere stato un giovane balilla (è nato nel 1921, nel 1922 ci fu la Marcia su Roma), lo portarono a ribellarsi al fascismo ed a partecipare in prima persona alla Resistenza. Il suo è stato un lungo excursus sulle ragioni nobili della emancipazione dell’umanità verso la democrazia e la libertà, a partire dalla rivoluzione francese per arrivare all’ONU ed ai giorni nostri.
Del suo discorso mi è rimasta impressa la sua commossa lettura di quella che si può a buon diritto considerare la progenitrice della Costituzione italiana: la  Costituzione della
Repubblica Romana, nata dall’eroico tentativo di Mazzini, Garibaldi e altri valorosi patrioti di creare nel 1849 il primo stato democratico nella penisola italica. È da essa che i nostri padri Costituenti, forgiati dalla lotta di Liberazione, presero le mosse per redigere l’attuale Costituzione.

PRINCIPII FONDAMENTALI

I. La sovranità è per diritto eterno nel popolo. Il popolo dello Stato Romano è costituito in repubblica democratica.

II. Il regime democratico ha per regola l’eguaglianza, la libertà, la fraternità. Non riconosce titoli di nobiltà, né privilegi di nascita o casta.

III. La Repubblica colle leggi e colle istituzioni promuove il miglioramento delle condizioni morali e materiali di tutti i cittadini.

IV. La Repubblica riguarda tutti i popoli come fratelli: rispetta ogni nazionalità: propugna l’italiana.

V. I Municipii hanno tutti eguali diritti: la loro indipendenza non è limitata che dalle leggi di utilità generale dello Stato.

VI. La piú equa distribuzione possibile degli interessi locali, in armonia coll’interesse politico dello Stato è la norma del riparto territoriale della Repubblica.

VII. Dalla credenza religiosa non dipende l’esercizio dei diritti civili e politici.

VIII. Il Capo della Chiesa Cattolica avrà dalla Repubblica tutte le guarentigie necessarie per l’esercizio indipendente del potere spirituale.

Questo blog è dedicato a Mario Castelvetro, un Italiano che dal 2007 non è più tra noi.
Un luogo immateriale in cui verranno ospitati documenti politici e non, suoi o su di lui e comunque legati al mondo materiale e ideale di un uomo che deve la sua formazione etica e politica alla scuola di lotta e di democrazia della 28a Brigata Garibaldi, comandata dall'amatissimo Arrigo Boldrini.
L'ordine cronologico rispetterà le date di creazione dei testi.
Un "Memory Blog" su e per Mario, dunque, ma anche un contenitore dinamico di informazioni su fatti, luoghi, personaggi (ancora) contemporanei.
Cercando di essere fedeli a quei valori che ha saputo trasmettere di umanità, giustizia, senso del dovere, onestà materiale ed intellettuale, senza ambizioni che non fossero quelle di essere utile ai suoi simili - nel senso comunista del termine.

A cura di Maurizio Castelvetro


Sito attivo dal 11/9/2008

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