Questo testo è stato redatto da Mario nell’estate del 2007 e diffuso come comunicato stampa dall’ANPI di Cattolica. Esso coglie l’occasione dell’anniversario della morte nel 1944 di Domenico Rasi e Vanzio Spinelli, due giovani arruolati presso le truppe repubblichine di stanza a Cattolica, del loro avvicinarsi all’antifascismo e per questo fucilati, descrivendo anche il modo in cui avvenne la ricerca e la raccolta dell’inedito materiale documentario sulla vicenda.

I giovani di oggi sono stati sollecitati a indicare liberamente nel segreto dell’urna quale governo, quale amministratore, quali partiti e quali raggruppamenti politici dovranno gestire questa nazione Italia, così scompaginata da decenni di malgoverno.
Come possono essi comprendere, capire, interpretare quella realtà perennemente impressa nella mente e nei cuori degli ottantenni di oggi i quali subirono il triste destino di una gioventù travolta nel turbine di una tragedia bellica voluta, provocata e programmata dai nefasti regimi nazifascisti?
Le loro scelte maturarono sotto un regime in cui l’opposizione era stata messa a tacere con la violenza e con la messa in opera dei Tribunali speciali che avevano comminato centinaia di anni di galera e di confino.
Ai facinorosi manganellatori che avevano insanguinato le strade e le piazze agli albori fascisti si sostituiva lo Stato fascista che con leggi eversive e una strisciante e sottile programmazione pseudo-educativa e culturale tendeva a fascistizzare i giovani, illudendoli quali futuri conquistatori di un nuovo Impero, teorizzando la superiorità razziale e la invincibilità di un regime che poteva contare su “otto milioni di baionette”, enfatizzando l’illusione di un domani da dominatori e diffusori della cultura fascista in ogni luogo della terra.
Venne l’appuntamento con la Storia: milioni di giovani scoprirono la grande, tragica farsa ventennale.
L’impatto con la verità e la realtà fu violento.
Oppressione, ingiustizia, orrore, terrore e paura furono gli ingredienti esplosivi che preannunciavano la fine di un regime.
Venne il 25 luglio del ‘43. Il fascismo era finito! fu una gioia incontenibile, perché si identificava tale evento con la fine della guerra… ma, fu detto, “la guerra continua”.
L’8 settembre segnò l’armistizio: per i tanti combattenti e per i familiari che li attendevano ansiosi significava la fine della guerra, delle paure, delle sofferenze.
Ma ad un esercito privo di ordini subentrò immediatamente quello nazista che già aveva meticolosamente programmato con il piano Alarico l’invasione del territorio italiano.
Intere divisioni italiane si dissolsero per la fuga dei comandi, fu la corsa pazza verso casa e a nulla valsero i fulgidi esempi di opposizione al nemico tedesco della divisione Acqui a Cefalonia e dei reparti che resistettero in Roma a Porta San Paolo e in tante altre località.
Fu la caccia feroce dei nazisti ai militari e ai civili italiani, catturati e stipati come prigionieri nei carri bestiame, avviati ai campi di concentramento in Germania.
Bisognava fuggire, nascondersi nei fienili, nei campi, in montagna, negli anfratti.
Mussolini non era finito: prelevato dal Gran Sasso dai tedeschi, portato in Germania, fu messo a capo di un governo fantoccio insediato a Salò.
”Tutti i militari e i giovani di leva si presentino presso i comandi della Repubblica di Salò” era il nuovo ordine, e chi non si fosse presentato sarebbe stato, nel migliore dei casi, deportato, mentre per i renitenti, considerati disertori, era prevista anche la fucilazione.
In quei momenti diverse furono le scelte individuali, diverse le motivazioni.
Da un lato, il rifiuto di continuare la guerra a fianco dei tedeschi e cercare di sfuggire alla cattura – ribellarsi al nuovo regime e partecipare alla resistenza in montagna, nelle città, in pianura, maturando ideali di libertà, di uguaglianza, di giustizia sociale, di democrazia in netta contrapposizione con le motivazioni culturali e politiche del nazifascismo – concepire l’idea di Patria indipendente basata sugli ideali di una nuova Resistenza. Dall’altro, aderire alla Repubblica di Salò per paura di ritorsioni verso i familiari – mantenere quella concezione di “onore” e di “Patria” che si identificava con il fascismo e con l’assurda fedeltà verso l’ex-alleato nazista.
Queste le premesse per una corretta comprensione della triste vicenda di Domenico Rasi e Vanzio Spinelli.
Essi, dopo l’8 settembre, scelsero la parte sbagliata. Ma gli sviluppi bellici, gli orrori, i crimini che i nazifascisti commettevano in Italia ed in tutta l’Europa, la constatazione della assurdità di continuare una guerra perduta e la crescente perdita di vite umane maturarono nella mente dei due giovani l’avversione verso quel regime criminale, il desiderio di un ritorno agli affetti familiari, il consenso sempre meno tacito verso i partigiani che combattevano per la libertà contro l’oppressione, l’avversione dichiarata verso comandi autoritari e criminali.
Quale fu la loro fine é noto a tutti.
Dopo un processo sommario furono condannati a morte e, per ordine del famigerato maggiore Vannata, fucilati nel cimitero di Cattolica all’alba del il 24 giugno 1944.
Nei documenti recentemente raccolti (testimonianze e lettera scritta la notte che precedette la fucilazione) i due giovani esaltano gli elevati ideali di Pace, di giustizia, di libertà e di solidarietà, non si dolgono per la loro sorte ma per il dolore che provano i loro familiari.
La Giunta di Cattolica, insediata dal governatore militare alleato dopo la Liberazione, conferiva ai due giovani cesenati la cittadinanza onoraria.
Ad essi fu dedicato il nome del lungomare ed un cippo venne eretto nel I978 nel cimitero sul luogo del martirio.
Le informazioni sulla vicenda, tuttavia, erano sempre state piuttosto generiche, anche a causa della morte dei protagonisti: ascoltatori, esecutori, giudici. Un misto di omertà e di nebulosa memoria. Unico documento noto, la lettera dattiloscritta di Domenico Rasi ai familiari.

Per saperne di più telefonai all’A.N.P.I.
Cercai un nome, RASI MARIA: la sorella minore di Domenico, abitante a Cesena.
Mi recai a casa sua.
Gentilmente mi fece entrare, avanzai la richiesta di notizie.
In questi casi normalmente trovo riserbo, memorie vaghe, un certo disagio a rievocare tristi momenti della vita.
Maria invece fu veramente disponibile a fornire notizie. Si assentò un attimo e ritornò con una busta contenente fotografie e vecchi fogli ingialliti: tra di essi, la lettera autografa di Domenico Rasi.
Ma la signora Maria indicò anche un foglio particolare, datato 14 settembre I946, firmato Carlo Cortesi, bersagliere nello stesso 8° Reparto Bersaglieri della Repubblica Sociale Italiana di Salò di stanza nella rocca di Cattolica nell’estate 1944.
Tale dichiarazione venne trasmessa al tribunale di Parma nel processo intentato al maggiore Vannata [comandante del Reparto], imputato appunto per crimine di guerra.
La mia ricerca si è fermata lì perché gli atti processuali sono stati trasmessi alla Procura militare di Roma e finiti nel famoso “armadio della vergogna”.
Nella lettera sono descritti tutti particolari di quella esecuzione criminale di cui ho fornito tutto il testo alla stampa.

Il sottoscritto Cortesi Carlo […] espone i fatti accaduti il giorno 11 giugno 1944 ai giovani Rasi Domenico, Spinelli Vanzio, Fontana Ippolito. Era nostra intenzione di recarci coi partigiani portando seco mortai dei quali ne eravamo a guardia ed il relativo armamento personale. In seguito a delazione dei bersaglieri Di Poli […] e Baglioni […] fummo arrestati e condotti nel castello di Cattolica. Durante tutta la notte si susseguirono gli interrogatori condotti sotto la guida personale del Magg. Leonardo Vannata il quale non mancò, visto il nostro silenzio, di usare mezzi decisivi quali: percosse, minaccia di morte con la rivoltella in pugno. Gli interrogatori continuarono nelle giornate seguenti; per farci parlare non furono risparmiati nemmeno qui i soliti mezzi, quali nuovamente percosse e giorni 6 di pane e acqua. Vista l’inutilità degli sforzi per ottenere una confessione da parte nostra il Magg. Leonardo Vannata chiamò il tribunale delle S.S. tedesche al fine di farci processare.
Le accuse erano: disfattismo nelle forze armate, intelligenza con i partigiani, propaganda sovversiva; dette accuse furono sostenute dai due delatori Baglioni e Di Poli i quali sapendo, come a loro comunicato prima del processo dal Magg. Vannata, che se fossero riusciti con il peso delle loro accuse, a porre il tribunale giudicante ad essere draconiano, sarebbero stati promossi di grado; cioé da caporale che rivestivano all’atto dei fatti al grado di sergente, non mancarono di mettere in potenza tutte le loro energie per raggiungere lo scopo. Cito all’uopo un particolare: Il Presidente del tribunale domandò ai due delatori se l’opera disfattista svolta da noi poteva essere interpretata realmente come frutto della nostra fede di antifascisti o al contrario, come semplici considerazioni di parole gettate al vento come conseguenza logica dei recenti sconvogimenti politici dell’Italia .
La risposta dei due delatori é la seguente: possiamo pienamente provare la fede di
antifascisti degli accusati i quali cercavano di intaccare la nostra idea e di convincere (sic) i principi fascisti di parecchi bersaglieri del battaglione. Giuriamo che tutto ciò che stiamo dicendo è la verità e cosi elencarono tutte le discussioni da noi avute sia con i bersaglieri come con i civili di Cattolica, discussioni per le quali si affermava le sorti della guerra essere perdute per i tedeschi e per i fascisti, della figura meschina del duce che stava causando la rovina dell’Italia, dell’apprezzamento verso i valorosi partigiani che stavano combattendo la vera causa della libertà. Così per la loro premeditata volontà di riuscire nell’intento, dopo le istigazioni ed il premio promesso dal Magg. Vannata, misero il tribunale nella precisa condizione di dover applicare l’aggravante e non l’attenuante come si era dimostrato di essere ben intenzionato per la domanda sopracitata circa l’interpretazione dell’opera disfattista. Terminata la prima udienza, mentre eravamo ricondotti in cella Spinelli Vanzio si rivolse ai due delatori pregandoli di alleviare le accuse dato che il tribunale volevasi dimostrare clemente, la risposta fu un sorriso, indi si recarono dai componenti il tribunale e raccontarono quanto loro era stato richiesto. Durante la seconda udienza furono contestate le accuse rimaste quali: per il Fontana Ippolito l’aver sparato con un moschetto sull’effige del duce, per il Cortesi Carlo aver cantato l’inno comunista, Bandiera rossa, come pure diverse discussioni disfattiste e propagandistiche. Le condanne furono: Pena di morte per Rasi Domenico e Spinelli Vanzio, due anni e mesi sei di lavori forzati in Germania per il Fontana Ippolito, un anno per il Cortesi Carlo. Faccio presente il contegno scorretto tenuto dal Magg. Vannata durante tutto il processo, il quale, spesse volte cercò di controbattere di sua iniziativa personale le nostre discolpe pur non essendo chiamato direttamente in causa dal tribunale e non avente nessuna veste ufficiosa se non quella di semplice spettatore, le risa ciniche del medesimo ogni qualvolta l’evidenza dei fatti impedivano a noi di provare la discolpa, le gesta con le mani tramite le quali voleva significare che ci voleva strozzare, contegno al quale nemmeno i ripetuti richiami del presidente il tribunale posero termine. Fu il magg. Vannata che diresse personalmente, collaborando efficacemente e facendo pressioni presso l’autorità del tribunale tedesco per ottenere, come ebbe lui stesso a dichiarare di fronte ai suoi bersaglieri un esempio, valido monito per frenare le recenti disgregazioni che andavano infiltrandosi fra il battaglione. I componenti il plotone d’esecuzione furono scelti dal magg. Vannata, il S. Ten. Dantona designato a comandare l’esecuzione si rifiutò pochi istanti prima, in seguito all’ordine preciso del magg. Vannata che lo minacciò di freddarlo sul luogo diede il tragico comando d’esecuzione. Il S. Ten. Aschedamini […] sparò due colpi di grazia sul corpo di Rasi Domenico. Avvenuto il fatto i due delatori Baglioni e Di Poli, in una discussione fra compagni dissero che i due giovani si erano meritata la condanna ed era giusto che pagassero con la vita le loro colpe, compiacendosi poi per la fiducia e l’elogio che il tribunale tedesco gli aveva tributato.
(Una prima relazione sui fatti, più dettagliata, fu da me fatta al Tribunale di Parma
durante la testimonianza che feci presso il Giudice Istruttore).
Firmato: Cortesi Carlo

Terminata la lettura, la signora Maria mi porse – come fosse una reliquia – la lettera autografa del fratello Domenico: due fogli di un grigio stinto di carta da lettere, scritta fittissima ma senza discontinuità dei caratteri, significativa di una fermezza d’animo e di serena consapevolezza del tragico imminente impatto con la morte, una lettera soffusa di un immenso amore familiare, di saldezza di principi, di un amaro rimpianto per una infame condanna, che diviene più significativa per quel perdono verso i carnefici in quanto “sconsiderati che non sanno quello che fanno”.
Tuttavia, conoscendo le tante vicende tristi e criminali del nazifascismo, noi diciamo che lo sapevano eccome, e che solo la responsabile politica di un governo democratico succedutosi alla dittatura ha saputo scegliere quella via alla pacificazione ed al perdono che ha dato la libertà anche a coloro che, non comprendendo di aver scelto una strada sbagliata, avevano operato per far restare in piedi una repubblica fascista, stampella senza valore di un esercito nazista occupatore del territorio nazionale.
Si scorrono quelle righe con commozione, vi è anche un libretto stampato con le lettere dei due ragazzi, quasi simili per i comuni sentimenti che li accomunavano ed univano anche nel tragico destino.
Con amarezza la sorella espresse un certo disagio per il prolungato oblio: noi ora vogliamo dirle che Cattolica, l’A.N.P.I., i cittadini democratici, l’Amministrazione comunale accomunano nella memoria dei martiri per la libertà i due giovani Domenico Rasi e Vanzio Spinelli con Egidio Renzi (antifascista, massacrato alle Fosse Ardeatine il 24 marzo I944), Agostino Cicchetti (perito il 13 aprile I944 a seguito di ferite durante uno scontro con i tedeschi in azione di rastrellamento lungo la Linea Gotica) e di tutti coloro che il nazifascismo rabbioso, prossimo alla sconfitta, soffocò nel sangue, seminando il terrore nella vana speranza di stroncare quella Resistenza che invece si fortificò e trovò nella stragrande maggioranza della popolazione così vasto appoggio e consenso.
[…] Rendere loro omaggio è doveroso e significativo di una memoria che non va cancellata, di una volontà di rifiuto della violenza, della condanna di qualsiasi regime passato e presente che calpesta o intende sopprimere quei valori di pace, di giustizia e di liberta che furono il sogno dei tanti che furono spenti per aver lottato e sperato in quegli ideali.